giovedì 15 marzo 2012

come dormi? come dormi, la notte? cap 4 e 5


CAPITOLO 4

devo dire che alcisa, per quanto bizzarro, era niente in confronto alla combriccola dei suoi amici che mi propinava. certi pazzi furiosi, roba da en-bì-ei della follia. il peggiore di tutti ve lo voglio raccontare, era un tale pseudoyeti, il nome non lo ricordo proprio. tutto ciò che sapevo di lui era che una volta lo avevano dovuto portare di corsa al pronto soccorso che stava per soffocarsi con un terzo pollo. cioè, non un terzo di pollo, badate. un pollo intero dopo che due se li era già magnati. l’ultimo, si narrava, lo aveva inghiottito intero. mah, ci credevo poco a ‘sta storia. mi sembrava un po’ pompata. eh che cazz’era ‘sto tipo che mangiava polli interi? un pitone? mah..
comunque.
lo conobbi al matrimonio. il suo. mi aveva invitato alcisa. non so se mi spiego.

io: oh ciccio, ma sei sicuro di quello che facciamo? cioè, mi presento lì, senza che mi conosce nessuno, manco gli sposi poi, sai com’è..
alcisa: conosci me, testadicazzo
io: oh beh allora sì stiamo a posto

portai come regalo una radiosveglia che il mangiatore di polli non considerò. sua moglie sì, le piacque di molto. vabbò, a riprova, ‘sto tizio amico di alcisa che conobbi al suo matrimonio (ma sarà successo a qualcun altro una cosa siffatta? dubito) mi si offrì di montarmi sull’audi ottanta (ah che ferro..) il pianale dietro con le casse stereo, oltre che brigare con tutti quei diavoli di collegamenti elettrici. ci lavorò un pomeriggio. per provare che tutto fosse ok prese una cassetta delle mie e la infilò dentro. erano i timoria, partì una poesia di pedrini
‘c’è un lungo fiume di dolore che attraversa il tempo
nel suo letto
scorrono il fuoco dell’arte
e i cadaveri dei suoi figli maledetti’
il subnormale, una bestia di un metro e ottantacinque per centoquindici chili, mani nere unghie nere e occhi azzurri di quell’azzurro inespressivo, ne fece quasi un caso personale
‘mo che cazzo dice ‘sto qua? oh, mo che cazzo di musica di merda ascolti, pezzo di merda…’
curiosamente, ma neanche tanto, non c’era mai un cambio di inflessione nel suo parlare, dall’inizio di una frase alla fine. e manco tra un discorso e l’altro. poteva dirti ti amo o ti ammazzo con lo stesso tono. una segreteria telefonica di un metro e ottantacinque e centoquindici chili dagli occhi azzurri inespressivi.
con la sinistra mi prese per la maglietta tirandomi giù, mentre con la destra mi diede una noce in testa, un pugno a martello dall’alto verso il basso, tipo alla bud spencer insomma. poi estrasse la cassetta e la frantumò con la suola delle scarpe. alcisa rideva, rideva da matto.
appena mi ripresi dal trauma cranico la buttai prudentemente sulla diplomazia
‘scusa sai, ma fammi capire. te che musica ascolti che ti fa tanto scago ‘sta roba qua’
‘a me mi piace quella canzone che dice come mai ma chi sarai’ disse lo yeti
alcisa batteva le mani, rideva, si piegava in avanti tenendosi la pancia, cantava gli 883. stonando volutamente più di quanto umanamente possibile
‘dimmi come maiii-ma chi saraiii.. ah ah ah ah
dimmi come maiii-ma chi saraiii.. ah ah ah ah
dimmi come maiii-ma chi saraiii.. ah ah ah ah’
poi si dette un freno che magari mi potevo anche offendere
‘dai ben non te la prendere, dòtore’
‘mo perché gli hai detto dòtore? sei un dòtore, te?’
‘si, cioè no.. cioè, dipende..’
dovevo smettere subito di esitare. stava per partire un altro papagno
‘forse tu per dottore intendi medico, ecco io non sono medico, sono laureato sì, ma non in medicina, ho fatto chimica industriale, mi sono laureato e, insomma, sono dottore in chimica industriale’
la mia risposta non lo aveva convinto
‘dòtore…. dòtore in chimica industriale…. mo cos’è un dòtore in chimica industriale..?’
non era mica facile. a parte il fatto che poi a questa facoltà mi ci ero iscritto per puro caso. era successo infatti che quando con il fido guimaraesh ci eravamo trovati in segreteria per immatricolarci, avevamo trovato con stupore due sportelli: chimica pura e chimica industriale. nel dubbio si era scelta la seconda, dietro saggia e ponderata riflessione del guim
‘mettiamoci qua, che c’è meno fila’
orsù, ora dovevo dare spiegazioni all’energumeno
prima che potesse colpirmi una seconda randellata, ci pensò alcisa a togliere le castagne dal fuoco
‘ohi, un dòtore in chimica industriale è uno che ha studiato la chimica!’
quella risposta sembrò soddisfarlo. e meno male, se no forse non sarei qui a raccontarlo.
per dirla tutta, in mezzo a ‘sta gente mi ci trovavo proprio bene. mi piacevano, mi piacevano proprio, mi piaceva la mia nuova vita di provincia, di barsport, di fiere di paese la domenica pomeriggio, di pescate ai laghetti, di personaggi più giovani di me che pareva avessero il doppio dei miei anni, di ragazze con un italiano incerto ma furbe e scafate, eccitantissime quando si mettevano in tiro e che comunque non se la tiravano mai. mi piaceva quel nuovo mondo, mi sembravano tutti veri e sinceri. mica come quando andavo alle feste universitarie o al made in bo o cose simili a pogare o ballare ska para pappa para pappa pa-paaaaaaa in mezzo a ‘sti fuori sede che saltellavano sulle note della tromba e parppappapappa ppà coi capelli ricci e barbe incolte con le loro drehr o dana brau tenute per il collo della bottiglia e che si fumavano paglie fatte a mano con ragazze con treccioline e perline anche loro che saltavano pa- parappappa pappa paa paaa anche loro con le paglie fatte a mano e vestite malissimo e che magari oh ciai del fumo? oh ciai ‘na cartina? (che vogliamo la pace nel mondo)
sai com’è, due maroni...
forse è che avevo fatto l’università per caso, e dunque era un caso che le mie vicende avessero preso quella direzione. cosa ne sarebbe stato di me se qualche anno prima fossi entrato in fabbrica, se avessi ceduto alle insistenze di mio padre?
giaaaà….
‘tè non sei come tua sorella, non dire perché lei sì e io no, te non sei intelligente, te ti è già andata bene che ti sei diplomato, te è meglio che vai a lavorare’
in realtà poi avevo il forte sospetto che il suo cruccio non fosse tanto università o meno. il suo principale tormento era che a diciannove anni non avevo e non avevo mai avuto prima una morosa, e pensava magari che col lavoro, l’indipendenza economica… che poi vaccaboia come mi irretiva ‘sta predica che non avevo la ragazza e ‘sta cosa non era normale. spesso le sue argomentazioni si spingevano fino alla conclusione che evidentemente ero gay, te ti un busèn, eh? at saree mega un foffi, eh? poi una volta gli dissi ‘ok. sì, lo ammetto, sono omosessuale' e lui andò in para totale
‘brisa!! brisa!! brisa schèrzer! piòtost un drughè! l’è mei un fiol drughè che pederasta!’
e allora la smise con le sue menate su fidanzate e orientamenti sessuali
almeno per un po’, ecco
ma comunque sul fatto che non fossi abbastanza intelligente ci credeva davvero e ci faceva forte leva. ‘sta cosa gli era rimasta da quando ero bambino al primo anno delle elementari. poiché ero rimasto l’unico della mia classe che non sapesse né leggere né scrivere, le maestre avevano convocato i miei genitori per fargli presente della mia situazione. ovvio era andata solo mia madre. che, poveretta, si prese anche la briga di cercare di farmi recuperare il ritardo: tutte le sere dopo cena ci mettevamo sul lettone e mi faceva leggere per qualche quarto d’ora. si faceva dei gran pianti, e mica cercava di nascondere lacrime e lagne. che momenti deprimenti. eh, ma la cosa buffa di tutta ‘sta storia è che cosa mi faceva leggere. ebbene, erano stralci di articoli de l’unità, quella della domenica a cui si era abbonati. per tutta la settimana. mica gli aristogatti. l’unità della domenica fino al sabato dopo. vabbò, daje de tacco daje de punta andò che poi imparai e rimontai sul gruppo. con tutte le difficoltà che poteva avere e che, anche se non più drammaticamente, si sarebbe poi portata dietro per sempre, una persona affetta da quella cosa che si definisce dislessia. allora però in famiglia si piangeva e si diceva che ‘sto figlio era nato con la testa scema e da chi mai potevo aver preso.
comunque, mi ero poi diplomato, poi laureato, e adesso volevo vedere quell’altra faccia della luna.
io, lo scemo sulla collina.








 
eppoi dai, pure ‘sta storia degli atomi…
diciamoci la verità, che gli atomi non esistono’

(berto n detto scuraza con l’assistente di organica I, pochi minuti prima dell’esame)



CAPITOLO 5

ma dico io. non sarebbe bello poter serenamente godere di una imprevista calda giornata di sole quando è autunno inoltrato? dire ciao al laboratorio quando è presto, e pensare che oggi va così. fermarsi al bar di laura per una birretta che poi te la offre un compaesano che ti ha detto dottò, com’a shtì? ‘tta poshtt? cchi tti shti a cumbinà? arrivare a casa e mettersi vestiti comodi, riscendere giù in bicicletta, fare un salto ai laghetti pucci di scafa per vedere se la’ se ne prende, fermarsi poi da carminucc che c’ha quelle cotolette che a te piacciono tanto. giocare un po’ con tommy in giardino, far respirare il montepulciano d’abruzzo mezz’ora prima di cena. e poi, dopo mangiato, lavati i piatti e tutto il resto con calma olimpica, adagiarsi comodo nel letto, a leggere un po’, e dormire.

sì, dormire.
che io non dormo mai.
io non dormo, la notte.

la prima notte insonne che ricordi ero bambino, otto anni direi.
capitò che giocavamo a calcio con uno di quei palloni leggeri leggeri, quelli che tiravano giù dai carri del carnevale, che li calciavi e se ne svolazzavano per i fatti loro seguendo percorsi contrari ad ogni principio chimicofisico assodato. quelle traiettorie alla holly e benji, per capirci. beh, quel giorno un mio tiro in porta finì rocambolescamente per incastrarsi direttamente in mezzo ai rami di un groviglio di rose. quando andai a recuperare la palla, era malinconicamente ammosciata, sembrava quel quadro degli orologi. ora, non che fossi un leader, ma manco l’ultimo degli stronzi. ero mediamente rispettato nel gruppo, nell’ordine di beccata non ero ne troppo su ne troppo giù. quindi accusai il colpo quando il buon mauro disse con tono cattivo ‘è tutta colpa tua. lo hai bucato tu. adesso tu glielo devi ricomprare!’ e il figlio del cacciapesca ribadì ‘sì! me lo devi ricomprare!’. ero in un grosso guaio. quella notte non chiusi occhio, la trascorsi a pensare a come venirne fuori. ricomprare? ma dai! con quali soldi? e poi, come si faceva a comprare un pallone?
sparii dalla circolazione, non mi feci vedere in giro per giorni e giorni. addirittura adesso era mia madre che mi spingeva ad uscire di casa, giunse quasi ad obbligarmi. siccome mi faceva troppe domande sul perché e percome, infine rientrai nella gang. intanto fisiologicamente la cosa sì era già sgonfiata proprio come quel maledetto pallone svolazzante. e fu come non fosse mai successo.
la seconda notte in bianco che mi ritorna in mente è stato poco dopo. ero a dormire dai nonni quella volta, e meno male. che avevamo fatto la verifica di grammatica, quella della forma attiva-forma passiva. piero mangia la mela – la mela è mangiata da piero. dieci frasi, bisognava dire se erano nella forma attiva o passiva appunto, e poi traslarle nell’altra. su dieci avevo fatto zero. davvero. ci dava i voti la maestra, e io avevo preso zero. stavo d’un male, ma fortuna voleva che quella notte dovevo stare fuori dai nonni. sai mia madre… uhff!
1) cazziatone
2) autocommiserazione
3) pianto
mio padre no problema, avrebbe smadonnato e avrebbe fatto finta di incazzarsi per poter prendere l’uscio come sempre per andare al bar della bolognina che c’era da vincere il prosiutto al torneo di briscola.
comunque, in preda a quelle angosce del bambino, non dormii tutta notte.
di quella roba non ci avevo capito niente. la maestra mi aveva preso in disparte e mi aveva detto ‘ma come è possibile che non capisci?!’ poi aveva cantilenato ‘piero mangia la melaaaa, forma attiva! la mela è mangiata da pierooooo, forma passiva! eh? eh?’
niente, non recepivo. e dire che se ripenso a quegli anni mi vedo con una spigliata curiosa immaginazione figlia di un certo pensiero evoluto. tipo, tanto per dire, mi ricordo che mi chiedevo spesso cosa ci fosse al di la’ del cielo. pensavo: se vado su, verso l’alto, e poi sempre su e ancora su, cosa trovo? cioè, quando finisce il cielo? e quando finisce il cielo, cosa c’è? mi immaginavo che schizzavo in alto tipo un tappo di spumante, o un V2, o l’apollo 13, e salivo e salivo e passavo le nuvole e salivo ancora sfioravo la luna e poi superavo le stelle e salivo ancora e ancora cercando di figurarmi le cose fantastiche che avrei incontrato. ma mi veniva in mente solo altro cielo e poi altro cielo. chissà come mai, questo non mi rassicurava. anzi.

questo era tanto tempo fa
ma a volte ho come l’impressione che
anche dopo tutti questi anni
io sto ancora salendo

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