mi sembra
che alla fine non sono poi tanto diverso da quei tempi, sai?
forse un po’
più brutto.
beh, sì.
e anche
stanco. certamente ruvido e scontento. e poi mi sono anche arreso. in nome di
chi, in nome di cosa, dovrei combattere?
no, no… per
carità, per carità…
sono stanco,
sono annoiato.
la mia vita
sbadiglia come il pendolo di un orologio a pendolo
sai, se ci
penso, ho ancora quei difetti che ti hanno fatto innamorare, gli stessi che ti
hanno fatto andare via. del tipo compro cibi veloci al supermercato perché dico
che non ho tempo ma ci metto poi mezz’ora a ritrovare l’auto nel parcheggio.
di certe
cose ai bei tempi ci ridevi su. poi, col volgersi degli autunni, queste cose
hanno iniziato a scatenare tragedie.
che ne è
stato di tutto quell’amore, non lo so. ho sentito che il processo
dell’invecchiamento comincia dal momento che si nasce, appena sputati fuori.
possibile che il nostro amore abbia cominciato un processo di demolizione
nell’istante in cui ha preso forma? eravamo spacciati già al tempo zero?
tutto ciò è
molto triste e doloroso, ma è andata così. e non ci resta che ruggine tra le
mani.
ci penso
spesso.
ti penso
spesso.
la notte,
quando spengo la tivù o richiudo un libro, da solo, mentre ascolto il buio
della stanza, il vento fuori che agita le cose, il freddo della collina,
l’abbaiare dei cani da lontano.
e te? ci
pensi mai?
mi pensi
mai?
ti capita,
ogni tanto, ma non per quella canzone quel film quel posto, ma naturalmente,
perché ti capita e basta?
ma poi, la
notte, dormi?
e come
dormi?
come dormi, la notte?
apro
parentesi
oh, non
voglio mica fartene una colpa, oh. tanto non sono mai riuscito in questo,
neanche allora nel tempo della catastrofe. figurarsi oggi. meno che meno.
ma però
certo che tu,
‘nsomma, avresti anche potuto, boh, che ne so, avresti anche potuto lasciarmi
lì dove stavo, ecco.
chè io poi,
lì dove stavo, ci stavo anche bene, per dio
ma proprio
bene
chiudo la
parentesi
(oh, sempre
senza rancore eh, intendiamoci)
(oh, hai tutto il mio amore, all of my love, all of my love. ma il rancore, la
rabbia, me li tengo per me. per ora, e per sempre. l’amore te lo meriti. l’odio
no. non te lo concedo. per quel che te ne importa dell’uno e dell’altro,
beninteso)
(oh)
rieccoci li’
in uno dei tanti barsport sulla via emilia, le 10 del mattino di un sabato di
oltre metà novembre 1997. eccomi li’ intento a farmi i fatti miei, incurante
del cappuccino che si è raffreddato e la schiuma svanita, incurante delle
briciole della mia salata che per effetto elettromagnetico mi si appiccicano
lungo tutta la felpharaday, incurante della fame nel mondo, del pil,
dell’inflazione, dell’indice nasdaq, della new economy. provinciale nel
perdermi negli eventi nostrani magnificati dal carlinobologna. alcisa mal
sopportava le mie fughe dal contesto della sua plateale ma genuina modestia, e
mi apostrofava, e mi chiosava, e che ero un pezzo di merda, e che ero un
laureato di merda, che cazzo leggi sempre, che solo perchè avevo letto un
libro, che solo perchè un giorno ero passato davanti all’università… aveva
strani preconcetti, alcisa, e questo mi sorprendeva positivamente. chè a volte
mi dava la sensazione che per la sua testa circolassero altro che scoregge di
ranocchi.
buffa coppia
davvero, noi due. lui dalla grammatica approssimativa, lui che alla terza media
era stato normale fermarsi, ed io che nell’ambiente dell’accademia scientifica
millantavo una conoscenza umanistica fatta di letteratura russa e
novecent’americana. i soliti classici, siamo d’accordo. ma nel recinto
esclusivo dei pragmatici studiosi della materia con un curriculum siffatto
potevo facilmente ergermi a guru illuminato aperto alla grandiosità di tutta la
conoscenza planetaria. già nei tempi e nei templi della chimica industriale.
lui fresco
del patentino di papà, io invece che come mi diceva “è tanto che non la vedi
che non ti ricordi neanche più se è verticale o orizzontale”
quindi? cosa
ci facevo in quella provincia in quel bar in quell’ora di quell’oltre metà
novembre di quel 97. cosa stavo facendo?
sì, leggevo
il carlinobologna, bello eretto, espressione tra lo scazzato ed il severo, che
mi sentivo sicuro e protetto in compagnia della fisicità panciuta del compare.
e quando al solito cominciò a menare menate e manate sulla mia nuca, che era
ora, che oramai la nostra postazione tattica al lago mingulein era sicuramente
già stata occupata, gli dissi fermo un attimo! oh... fermati un attimo... un
minuto, un minuto solo poi andiamo…
alcisa
stranamente non insistette. mi lasciò subito perdere e fece la centesima
telefonata breve alla brava alina.
..zzao zipollaaa…
quello che
aveva destato cotanto scalpore nel vostro era la notizia di uno di quegli
eventi di cui si cibano le pagine dei quotidiani locali. trattavasi di
cortocircuito alla centralina elettrica della sede della facoltà di farmacia
quella di via s. donato, con conseguente sviluppo di fiamme e fumo ed
evacuazione immediata di tutti i locali.
‘dai! ma
daiiii! io c’ho fatto il concorso, la’! ma te pensa! ohi, ma è dove dovevo
andare a lavorare. dove avrei lavorato mi fosse andata bene quella volta. ma che
storia è, ehhh?’
alcisa se ne
tornò al banco del bar per riprendere il palcoscenico, per ricominciare ad
annoiare gli altri avventori del bar con la prosa di pescate miracolose, di che
fine avevano fatto certi personaggi mitologici calderinesi e zolapredosi, di
quanto era zoccola quella ma mai quanto quell’altra, di quello che era in
gabbia ma per fortuna non aveva cantato, storie di pompini, di coltelli, di
cocaina tagliatissima. ed io rimasi lì, col pensiero ormai già dirottato sulla
formazione che l’indomani sarebbe scesa al dall’ara, inconsapevole di una
raccomandata che viaggiava nelle tempestose acque del destino che regolava il
mio decorso sul pianeta emilia. una missiva che mi offriva l’arruolamento nel
corpo dell’alma mater, a tempo determinato, io primo degli esclusi di quel
fatidico concorso, e ora la gravidanza di una distante donzella mi apriva il
cancello dell’eden. la logistica proprio quel sito in cui gli dèi se la erano
spassata coi loro giochi pirici, a modo
di tipo ch’avete presente quei video pepsi-mentos su youtube? ne ho fatto uno
anch’io, con ursus sbatacchio e il buon dario, fatevi un giro se vi va.
vabbò,
comunque.
data presa
servizio primo dicembre. primo dicembre 1997.
primo
dicembre 1997, 350 km più a sud lungo l’a14 e altri 30 verso l’interno. c’è una
giovane studentessa iscritta al quarto anno della facoltà di farmacia di
bologna. se ne è tornata di buon grado al suo paesotto, che mal sopporta la
vita che certe discendenze dinastiche le impongono. il papà c’ha la farmacia del
paese, ereditata a sua volta dal padre, e il lasciapassare lo ha conseguito
proprio nella dotta e grassa. 35 anni prima, forse ancor di più. uh uh uuuuh. ora
tocca a lei. non ha scelta. non è un’imposizione paterna, ma si sente
predestinata. un po’ come certi figli di re e regine che non ne volevano mezza,
vuoi perché culi, vuoi perché gli era scesa la catena, di cui sono pieni i
libri di storia.
soffre la
giovane, ma non per il poco pingue libretto degli esami. scarno, molto scarno.
è che mal sopporta la lontananza dal paese e bologna è un luogo ostile. ma
reagisce tenace, resiste nella convinzione che non c’è altra via. intanto
l’incidente di via san donato le ha offerto il pretesto per tornare tra le
piccole mura fortificate del suo borgo. certo che mancavano solo tre
esercitazioni di laboratorio più la prova incognita finale, prima di poter
rientrare nella comoda placenta dei natali. ma questo cortocircuito è un dono
divino, anche pochi giorni ora le sembrano una salvezza piovuta dal cielo, il
mar rosso che si apre e che permette la fuga da un rigetto che è placato solo
da dosi quotidiane di xanax e sedute del mercoledì. se ne riparlerà a gennaio,
forse febbraio, per le frequenze di laboratorio obbligatorie.
eccola li’,
il primo dicembre 1997, al sicuro tra la sua gente di tutti i giorni, con le
sua smunta compagnia di coetanee/i, nel giorno del suo ventiduesimo compleanno.
c’è anche il
suo ragazzo, ovviamente. che a quell’età, in quel paese, e se poi te ne stai
lontana e sola, il ragazzo ce lo devi avere. ragazzo che non ama, ma lei lo
soffoca il suo non-sentimento, non vuole ascoltarlo, non vuole sapere ne’ di
questo ne’ che forse un’altra vita sarebbe possibile. ma c’è tutto un paese che
è più grande del mondo, e lei è la figlia del farmacista. e pensa di essere in
guerra. magari ci è davvero, in guerra. non è forte, ma è una di quelle che non
è disposta a cedere.
eccola
mentre festeggia il compleanno al solito posto delle solite feste, con la
solita compagnia, col solito ragazzo, con quel mondo che si ripete sempre
uguale.
le
bruschette, gli arrosticini, la torta, le candeline, i regali. fermi. guardate
qua. sorridete. fotografia.
intanto, 30
km verso oriente ed altri 350 su a nord lungo l’a14, un giovane laureato
potrebbe raccontare di come è stata quella prima esperienza di attacco alla
mammella dell’alma mater, quel primo dicembre 1997. ma agli amici storici, con
l’entusiasmo del novizio, che ti porta a bruciare sigarette su sigarette, a
navigare in confortanti birre irlandesi, gli sbrodola ancora del come è
scomparso, del perchè non si fa più vedere in giro, di quella vita che c’è al
di fuori dei viali di circonvallazione.
e intanto
nessuno di loro immagina. nessuno immagina che quelle tre esercitazioni e prova
finale di laboratorio di analisi dei medicinali III, corso che doveva
concludersi in quel novembre, sono poi da recuperare di li’ a venire.
nessuno al
mondo immagina che quel giorno è il primo dicembre 1997.
non lo
sapevo neanche io, ovviamente.
CAPITOLO 11
in verità,
quel telegramma mi arrivò addosso come un tir carico di dubbi. cercai consiglio
nel boss del laboratorio
“capo che
faccio? mi conviene andare, o è meglio se resto qua?”
“vai vai!
vaiiii! oh, farmacia! farmacia, è pieno di figa! sentammè, vaiii!”
“ah. ok.
allora faccio come mi dice lei. se c’è tanta figa d’altronde..”
di primo
impatto ebbi subito l’impressione di essere andato incontro ad un declassamento
professionale oltrechè sociale. a parte il discorso che lo stipendio sarebbe
stato un po’ inferiore, che avrei detto addio al buono vestiario, e che mentre
a seabo avevo un buono pasto quotidiano che copriva un pranzo al ristorante (e
il venerdì c’era sempre pesce) ora ne avrei avuti due settimanali da diecimila
lire l’uno da spendere nei bar. ma bastava vedere l’ambiente di lavoro per
capire che non avevo fatto proprio un balzo avanti. l’impianto di depurazione
acque e i laboratori chimici di seabo di sasso marconi erano strutture moderne,
con moderne attrezzature, lavoravo con delle gas-massa di ogni tipo e di ultima
o quasi ultima generazione. tutto era bianco e luminoso e dal sapore
mitteleuropeo. la gente che lavorava lì scherzava e sembrava felice.
il
laboratorio di via san donato che mi venne assegnato era il classico
laboratorione didattico universitario, fatiscente in un edificio fatiscente,
con odore forte di chimica e muffa. tutto dava l’idea di vecchio, le stanze
puzzavano di vecchio, i muri, i mobili, il soffitto, tutto vecchio. incrociavo
gente smunta e incazzata, che ti guardava con l’espressione di chi pensa: e te?
che cazzo vuoi, eh? passai i primissimi giorni di quel dicembre 1997 a fare
inventari di sostanze, ma mi sembrava un po’ come scavare delle buche per poi
ricoprirle. dopo pochi dì mi affiancarono un portinaio della sede centrale di
via belmeloro che si sarebbe dovuto occupare della mia formazione. anche lui al
pari di tutta la realtà in cui mi trovavo immerso aveva un’aura di vecchio.
folti capelli neri tirati indietro con striature bianche, occhiali con lenti
paurosamente spesse su una montatura rubata al nonno di cavour. non so, c’avete
presente togliatti da vecchio? ecco, sembrava togliatti da vecchio. anche nella
voce, che usciva gracchiata e lagnosa come da una radio degli anni trenta.
ora, cari i
mei aficionados e le mie aficionadesse, vi starete chiedendo, ma come mai
proprio un usciere mi faceva il training in un laboratorio chimico. ebbene,
costui, a discapito di un aspetto ed un atteggiamento piuttosto scoraggiante, oltre
che scoreggiante, ebbene sì, si sapeva destreggiare con una certa disinvoltura pure
in questo contesto. in breve, era uno che sapeva vendersi. ed ovviamente non
aveva alcun interesse a che io imparassi a muovermi in modo indipendente o ad
avere una qualche idea di quello che avrei dovuto fare il giorno in cui il
laboratorio sarebbe stato nuovamente praticabile dopo il famoso cortocircuito
ed incendio della centralina elettrica. lui se ne veniva lì e ce ne stavamo
delle ore seduti a due scrivanie di un ufficio. io gli chiedevo ogni tanto
“capo, non è
ora che mi insegni qualcosa della faccenda?”
“non
chiamarmi capo. tu sei un livello sopra il mio, e sei il nuovo responsabile di
questo laboratorio. io non ho nessuna responsabilità. sei tu che sei il capo,
non io”
quante volte
la menava con ‘sta soria delle responsabilità. intanto non faceva un bel sacrosanto
cazzo dalla mattina a sera. se la spassava alla grande, togliatti da vecchio.
tanto poi il giorno in cui mi sarebbero entrati 80 studenti per riprendere le
esercitazioni pratiche di analisi dei medicinali tre, sarebbero stati guai miei.
lui avrebbe tranquillamente ripreso posto nel gabbiotto di via belmeloro, a
scorreggiare quando possibile, tipo fatta una certa ora, la sera.
“senti,
almeno oggi vediamo un po’ di cose, dai..”
“ma stai
tranquillo, ma stai calmo. guarda, non ci vuole niente, basta ben poco per
capire come funziona qua. tanto sai quando si ricomincia qua?”
“e quando?”
“eeehhhh!!!
ahivoglia…”
“si però che
due maroni”
“eeeehhh
quanta fretta. goditela anche te, che poi dopo quando si comincia poi li
rimpiangi questi momenti. non avrai neanche più tempo per chiavare. che te ce
l’hai la ragazza, no?”
“no, non ce
l’ho”
“non hai la
ragazza?!”
“no. non ce
l’ho. è grave?”
“no, è che
pensavo ce l’avesti”
“aves-si”
“sì sì…
comunque non ce l’hai. sei mica uno di quelli?”
“quelli
chi?”
“quelli lì!
quelli dell’altra sponda”
“quale
sponda?”
“non fare lo
stronzo che hai capito. sei uno di quelli?”
“ma perché
ti interessa ‘sta cosa?”
“stronzo,
guarda che a me mi piace la patonza, stai tranquillo. voglio solo sapere se
posso essere tranquillo”
“puoi essere
tranquillo. non sei il mio tipo”
“ah ma
allora vedi che c’ho ragione! sei uno di quelli!”
“che due
maroni.. ma poi, da cosa lo avresti capito, che sono un quello?”
“hai detto
che non c’hai la ragazza…”
“ma non c’ho
neanche il ragazzo. dunque siamo punto e a capo”
“secondo me
a te ti piace la panocchia”
“magari con
due enne. comunque non la tua”
“mi sa che
devo stare attento a piegarmi con te in giro”
“merda! che
due maroni! ma non si può far qualcosa qua dentro che non parlare di
stronzate?!”
“stai calmo,
stai calmo, non avere fretta.. ma te ti piace la carbonara?”
“seeee….”
(stavo
cominciando a cedere. togliatti da vecchio era peggio di venti martellate sui
coglioni)
“oggi
potremmo farci la carbonara. te la sai fare?”
“seeee…”
“e come la
fai la carbonara te?”
“senti capo,
so fare la carbonara. punto”
“non
chiamarmi capo. sei tu che hai il livello più alto qua, sei tu che sei il
responsabile….”
“seeee
bonalè dai, ho capito, ho capito…”
“comunque,
per esempio, tu dove la friggi la pancetta della carbonara?”
“nella
padella..?”
“non fare lo
stronzo. intendo dire, che ci metti nella padella per cuocere la pancetta”
“olioooo…?”
“no!”
“no?”
“burro!”
feci una
finta espressione di stupore per dargli soddisfazione, e la sua faccia si fece
trionfante. manco avesse detto ad insaputa del mondo “e uguale a emmeciquadro”
“ok. falla
col burro… falla come cazzo ti pare”
“no. la
faccio col burro”
“grandioso”
“allora
usciamo a fare la spesa qua di fronte, ci mettiamo un attimo”
“cap.. cioè,
io dovrei passare pure alla veneziana a prendere i due camici”
“ok.
passiamo di lì. ma glielo hai scritto nel buono che devono essere neri?”
“certo che
no! col cazzo che mi metto un camice nero!”
“ma non puoi
metterti il camice bianco, oh! solo i professori e gli studenti possono portare
in laboratorio il camice bianco. noi tecnici dobbiamo avere il camice nero”
“ohi, napo
orso capo nonchè subcomandante marcos, cioè te lo dico bene ora e per sempre.
vedi, io non è che un giorno ho preso 30 e lode in organica due per mettermi
poi un camice nero. per carità eh, poi massimo rispetto per tutti, siam pur
sempre degli illuminati progressisti. ma ficcati in testa te e tutti gli altri
che io mi metto un camice bianco che più bianco non si può. ok?”
“ok ok fa
come ti pare che mi frega a me. prendilo bianco, fa pure. ma poi quando i
professori ti dicono che devi avere il camice nero, te che gli rispondi?”
“che ho
preso trenta e lode in organica due. fidati, loro capiranno”
fece una
carbonara memorabile. in laboratorio, impiegando la fiamma di un bunsen.
pesantina, ma credetemi, la più buona carbonara del mondo. mancava solo il vino
e sarebbe stato un pranzo perfetto. beh, quasi. magari pure con un’altra
compagnia. però suvvia, l’aveva poi fatta lui la carbonara.
vedi, è che
ognuno, anche l’ultimo degli stronzi, in fondo in fondo c’ha almeno un talento.
anche togliatti da vecchio.