mercoledì 25 aprile 2012

dipinti di blu



correre per le strade del paese con i fab four agli auricolari
l’album doppio senza nome, revolver, e inevitabilmente perdersi nel profumo di quel sole, di quel marzo, di quel novanta, di come ancora e sempre noi due sui cinquantini la mattina tardi, considerando sull’eventualità del che ne sarebbe stato se magari quella volta in via risorgimento ti baciavo
(ma gli dèi che tiravano i fili dei nostri destini tatuarono un altro finale, e poi più in là si sarebbe chiuso il sipario)
ma per questa un'altra again serata sgorbia vorrei avere di più che contentarmi di ritrovare il cavatappi per aprire le porte di un transitorio surrogato di paradiso
per questa sera vorrei che arrivassi tu, beby lemonade, e prendendomi per mano, vorrei che prendendomi la mano ci soffiassimo via, per andare lontano, lontano, lassù, lontano dove il cielo è più blu, dipinto di blu, come facevamo in quel tempo quando sembrava dovessimo diventare rame e zinco nell’ottone
ma ‘stavolta senza tornare mai
sei per sempre parte di me


martedì 10 aprile 2012

come dormi? come dormi la notte? cap. 12


CAPITOLO 12 – wild horses


ci vuole molto tatto. né bisogna fare delle affermazioni brusche. ci vuole una grande pazienza, ma non si può andare via.

(john fante, full of life)


i due eventi straordinari, la nascita del figlio di alcisa e il mio distaccamento dovuto al nuovo lavoro, invece di dividerci, ci unirono ancora più. era la para di alcisa, sapeva che ero costantemente in cerca di lavoro, un curriculum qua, uno la’, un’occhiata ai concorsi, piano piano, senza esagerare, senza far rumore. ma intanto cercavo, alla seabo ero a tempo determinato, d’altronde. non posso dimenticare la sua feroce gioia di quella volta che tornai dopo un fallimentare colloquio di lavoro a colà di lazzise, profondo nord. quella volta sembrava che facessi sul serio, ero partito al mattino presto per essere sicuro di trovare il posto per tempo. risultato, avevo il colloquio alle 17 e a mezzogiorno ero già davanti al cancello dell’azienda. cinque ore che spesi facendomi un campari nel primo bar, poi ci fu un pranzo in cui cercai di prenderla oltremodo lunga. evitai di bere vino, ma poi conclusi con caffè e montenegro. il resto del tempo lo passai da un bar all’altro a bere caffè corretti, tra partite di carte tra vecchi indigeni e lettura di quotidiani. insomma, arrivai all’appuntamento con uno smaronamento interstellare. dimenticai di impormi di rimanere concentrato durante il colloquio col selezionatore, sapendo del mio vizio di distrarmi nei miei viaggi ogni qualvolta che mi tocca sentire la voce altrui. tanto per dire, ci fu un momento in cui mi persi nella sequenza degli stabilimenti balneari di bellariva di rimini, bagno 89 tonelli 90 leandro 91 cosmos 92 luciano 93 gilberto… quando d’improvviso mi svegliò il silenzio (cit.)
“ebbene..?”
“uh?! ebbene cosa?”
“come ebbene cosa. le ho appena fatto una domanda!”
“ah. non saprei, è che, vede ecco… mi sa che non sono sicuro di avere ben afferrato il concetto. me la può riformulare, la domanda?”
game. set. match.
poi altro giro altra cazzata nel bel mezzo di una questione a risposte chiuse, proprio mentre stavo ragionando sulla disposizione degli alcolici dietro al bancone dell’old west pub: havana club 7 anos, pampero, varadero, glen grant, j&b, jack daniels.. ascoltai solo metà dell’opzione b e la c. non sapevo neanche a proposito di cosa.
“dunque, dottor bitossi. in questa situazione, lei farebbe come da a, b, o c?”
cazzo. quale situazione? vabbò..
“beh, dunque… la a, direi. sì, sicuramente a”
“a?!”
“no?”
“non è un quiz. sto cercando di capire la sua personalità”
“ah. ok. allora confermo l’opzione a, sicuramente a. sperando che da ciò non si evinca che sono pazzo ah ah ah… eh!”
e poi il gran finale
“mi dica… come vede il suo futuro?”
la buttai sul folklore, tanto oramai. una volta ad un colloquio di lavoro mi aveva detto bene buttarla sul folklore, sul finire del militare, settembre 1991, quando avevo intenzione di mollare l’università, seppur che durante l’anno da matricola avessi fatto il pieno degli esami. poi avevo dovuto interrompere il percorso accademico perché chiamato a difendere il patrio suol. non avevo fatto il rinvio, certo che uno stronzo come me mica lo avrebbero mai chiamato. e invece. orsù, comunque, quella volta a bentivoglio, la tipa che scannerizzava il mio io mi pungolava acida, ma serafico ribattevo con sfrontata sicurezza. mi chiese se avevo amici.
“certo che ho amici”
“e lei nella sua compagnia che ruolo ricopre?”
terzino sinistro”
“non faccia lo spiritoso. lei potrebbe definirsi il leader, all’interno della sua compagnia?”
“no”
“no?”
“no. il leader è guimaraesh”
“e chi è ‘sto guimaraesh?!”
“come chi è ‘sto guimaraesh!”
“dovrei saperlo, a suo avviso?”
“sì. dovrebbe… tutti sanno chi è guimaraesh”
insomma, mi offrirono il posto. che rifiutai per riprendere gli studi.

ora, tornando al 1997, alla domanda sul futuro, risposi
“una moglie, un figlio, un cane”
“io intendevo in senso professionale”
“mah, non saprei.. io non sono molto ambizioso”
“come non è ambizioso!”
“no. non lo sono”
“ma lei deve-essere-ambizioso!”
“ah. ok. magari ci ripenso”
“dunque?”
“non so. non mi piace il futuro. mi affatica il solo pensiero”
“ah! e le sembra positiva questa affermazione?”
“non saprei. a me piace, però. non è neanche mia. è di andrea pazienza”
“ahhhhh! andrea pazienza…”
“già. un grande. forse il più grande pensatore del novecento”
“mi sembra quantomeno discutibile questa cosa che ha appena detto”
“ah. sì, forse ho esagerato un po’”
alla fine non mi disse neanche le faremo sapere.
manco mi disse se ne vada a cagare. ma questo almeno lo avrà pensato.

tornai in tempo per il match di eurolega tra la virtus e l’alba berlino. strano, ma mi sentivo benissimo. dentro di me c’era una parte pragmatica che mi imponeva di trovare una sistemazione professionale e sociale stabilizzata. la metà irrazionale non voleva rinunciare alla provincia e alla provincialità di bologna, ai bar, ai laghetti, ai fiumi, alle tigelle e crescentine e lambrusco e pignoletto. ad alcisa, alina, il nuovo arrivato. alla mia famiglia, insomma. quella volta la seconda parte prevalse per cappotto. uscito dal palamalaguti, quella notte, mi fermai a dormire sul loro divano. alcisa non stava nella pelle dalla gioia che mi avesse detto male, mi insultava e mi riempiva il bicchiere di vino in continuazione e mi allungava fette di salame e crackers e paglie.
“ma dove cazzo vuoi andare te? te è meglio che rimani dove sei. pensi di essere così più bravo? non vedi che non ti prende nessuno?”
“non è questo il punto. ohi, ciccio-panzo, io sono a tempo determinato.. do you remember?”
mi diede un colpo forte con le nocche del pugno sulla testa
“senti, diu rimella, la prossima volta che mi dici ciccio-panzo ti do una scoppola”
mi tenevo il palmo della mano dove mi era arrivato il colpo con una espressione sofferente
“prossima volta il cazzo. mi pare che me l’hai data”
“la prossima volta te ne do due”

dunque, quello che comunque alcisa più temeva era infine accaduto. nel dicembre 97 smettemmo di essere colleghi, ma questo non fu poi di ostacolo. si parlava già di come avremmo passato il natale, la festa di capodanno, e del battesimo del piccolo albino.
eravamo due cavalli imbizzarriti, e non riuscivamo a credere che cosa mai avrebbe potuto fermarci o dividerci.

lunedì 9 aprile 2012

raviolo tenue


durante il solito percorso che calpesto come un abebe bikila un po’ più alto e rock, percorso che non saprei quantificare in termini di spazio, posso dirvi che ci metto un’ora e ¾, ecco, poco oltre la metà della fatica, tornando su per la strada di canosa, ecco che sento che nelle budella parte una macarena di quelle pese. insomma, lo squaraus. pesissimo. minchia, e mo? vabbò, tengo duro, resisti uomo resisti, non ce la faccio, prendo per i campi, mo corro in mezzo ai campi e svuoto il concime, sai che raccolto oh. ma se poi.. fammi vedere dietro… ma se poi oh metti che arriva culodipiombo ispettore callaghan, o passa miss codadicavallo, o addirittura loveofmylife.. naaa, niente devo resistere. quanto manca? manca un tot. corri uomo corri. oh oh cavallo oh oh cavallo oh oooohh.. resisti, pensa a qualcosa, canta quel che ti passa l’emmepìtrè, pensa a qualcosa, a lei, no a lei no dai ti stai cagando addosso puoi mai pensare a lei mentre ti stai per cagare addosso!
vabbò, penso a una storia così mi distraggo un po’ e siccome son molto lontano le chiappe mi stringerò… dunque, immagina che sei sulla bici, di ritorno da passo lanciano..

scendo lesto lesto dalla bici dopo 4 ore di discese ardite e di risalite, spalanco come un cowboy la porta vetro e i campanellini annunciano la mia entrata maraglia. dopo pochi secondi mister raviolo sbuca da dietro la tenda scorrevole e mi accoglie con un sorriso
salve, mi perdoni per la miiiis eh eh eh.. fa mica in tempo a farmi 30 ravioli? diciamo che..
guardo l’ora sull’orologio appeso al muro in fronte a me, sono le 12 e ¼
diciamo che sono qua per circa l’una. va ancora bene?
sì, come no
ok. ci vediamo all’una meno un minuto
ok
ok. volo. a tra poco. a l’una meno un minuto
a tra poco. cià
pedalo verso casa fortissimo, mi doccio velocissimo, mi vesto alla cazzo, e schizzo in macchina giù verso mister raviolo. l’una meno cinque, perfettamente in tempo, posso anche rallentare, certo ci sono gli who alla radio e mi viene da andare a manettaaaahh!!
paletta
noooo... minchia, sig tenente. o maresciallo. ahbbò, son più di vent’anni che ho fatto il militare
‘ggiornooo.. patente e libretto…
uhmpf. ecco..
guarda i documenti. alterna occhiate alle carte e al me che non sono sceso. vado di fretta vado di fretta…
l’una meno quattro
mirco valdo... è lei?
no. io sono paul mccartney..
prego?
no vabbò dai scherzavo sì sono io.. mirco valdo, intendo
ha voglia di scherzare lei?
no no ci mancherebbe, è che sono di fretta, tra tre minuti mi chiude il forno, devo ritirare i ravioli…
infatti andava un po’ spedito, eh..
capirai. manco fossi stato sulla bici…
senta, ma lei è di qua?
yep! alanno. sono di alanno
mi scruta perplesso
sono dodici anni che vivo qua, eh
io non l’ho mi vista…
sono un bravo ragazzo…
uhmm.. aspetti qua
va dal collega che se ne sta smaronato appoggiato alla volante, se ne entra in macchina e comincia a dettare i cazzi miei dentro ad un bagaglio che sembra quei microfoni anni ’50, tipo c’hai presente nick kamen che canta loving you has made me e poi socmel non me la ricordo più
l’una. l’una e uno, l’una e due, l’una e tre…
scendo dalla opelcorsa, mi avvicino all’auto lampeggiata, tutto mi sembra così statico, mi viene l’ansia
scusi.. scusi, visto che va un po’ per le lunghe, posso fare mica una telefonata..?
ma certo che può
grazie. sa, tra poco mi chiude il forno, se già non ha chiuso, e c’ho da ritirare 30 rav
ma chiami chi le pare…
ok ok. scusi, c’ho l’ansia, è che il fornaio mi aspetta, mi ha fatto i ravioli, magari poi pensa che gli ho tirato il pacco.. ok, aspetto alla mia macchina
torna dopo ben cinque minuti che son parsi una tortura cinese
ecco i suoi documenti, arrivederci e buona giornata
grazie a lei. scusi eh, vado di fretta che il fornaio mi lincia.. oh poi fretta.. ai cinquanta, si intende eh
arrivederci
arrivederci
arrivo trafelato da mister raviolo, prendo i ravioli al volo, pago al volo, riparto per casa e nel tragitto inverso e i pullotti se ne sono già iti
uau! ho fatto in tempo
coi ravioli

col caccarone, se ho fatto in tempo, non ve lo racconto però
è un’altra storia, questa

mercoledì 4 aprile 2012

la morte si è portata via la collina



mi pare di aver capito che il prossimo anno accademico non vedrà al nastro di partenza la facoltà di chimica industriale. kaputt, the end, game over, insert coin. nascono le scuole, bye bye le facoltà.
parlo dell’alma mater, ovviamente

peccato

ho ripescato un post celebrativo del 20° anniversario del mio primo giorno da matricola, lo scrissi qualche anno fa per il blog barbologna, che come tutti i blog di splinder, e come la facoltà di chimind dal prossimo anno accademico, s’ha mortt

peccato


venti di nostalgia

quando io e il fido nello freschi di diploma di perito chimico (aldini-valeriani) ci recammo la’ per iscriverci all’alma mater studiorum, con sorpresa si scoprì che c’erano due sportelli, due diverse facoltà: chimica pura e chimica industriale.
e mo’? “mettiamoci ben qua che c’è meno fila” disse il mio socio sovrappeso.
era la fila per chimica industriale. si decise così.

vent’anni fa era il 6 novembre 1989, e c’era la mia prima lezione da studente universitario. ricordo nitidamente. certi studenti degli anni avanti si erano messi d’accordo col prof di chimica generale 1, venne a farci una finta lezione una tipa che scrisse col gesso sulla lavagna (non c’era ppt) “la chimica non è un quadro-la chimica è una statua” e si avventurò in una improbabile dissertazione filosofica sull’importanza di vedere la scienza in modo tridimensionale.  la bionda vaporosa e attillata di fianco a me prendeva appunti e mi chiedeva dei passaggi che si perdeva. pensavo fosse una comparsa che era d’accordo. non lo era.
trattavasi di giovine matricola, come me. però bionda vaporosa e attillata (e che si sarebbe poi laureata con una sessione di anticipo. con lode. vamolà).
comunque.
chimica industriale era ed è ancora (per quanto?) ubicata in un viletino su per via del risorgimento. porta saragozza insomma, li’ dove c’è pure ingegneria. ma badate, nonostante la logistica che ci escludeva dalla eccentrica e movimentata movida della cittadella universitaria di via zamboni e dintorni, la chimind veniva considerata un po’ come il dams delle facoltà scientifiche. era una voce che girava, ai bei tempi. si vede che sei di chimica industriale, ci dicevano in piazza verdi in via belmeloro in largo trombetti in via del pratello. e da cosa? perché sei strano. cioè? è che voi chimici siete strani, vestite strano, avete gli occhi da pazzo, mi mettete anche un po’ a disagio, non so, beh però ciao eh mi dispiace devo andare il mio posto è la' eppoi ho finito le paglie ciaoooo.  diciamo che la nostra facoltà era una specie di enclave umanistica all’interno del territorio ingegneristico. come iscritti i numeri erano non elevatissimi relativamente al resto dell’unibo (nel mio anno di immatricolazione circa 130 arruolati, erano comunque ancora abbastanza se contestualizziamo. poi in breve le cifre sarebbero precipitate come in un venerdì nero in borsa).
eravamo quelli e quanti che eravamo, ma eppure c’era un sacco di cose. tipo il torneo di basket, 5 squadre una di ogni anno di corso più la sesta dei fuoricorso. che battaglie di fuoco. certe partite con un seguito tipo come l’high school americana. qualche volta c’era baruffa in campo, ma poi si andava tutti insieme a bere pinte e a darci pacche sulla spalla come rugbisti celtici e ci si chiedeva l’un l’altro: oh, ma quella là poi… ma te la sei poi guzzata? e ci si rispondeva l’un l’altro: mocchè. è una figa di legno…
e poi c’erano due pseudo gruppi rock, i “valontan” e i “credi che per me sia facile”. primo live alla morara, poi avremmo fatto il pieno alle bains douches per tre volte filate. nessuno dei due gruppi che sapesse suonare, io nonsuonavo la chitarra nei valontan. ma in ‘ste feste si era tutti imbriachi. la gente era imbriaca e non capiva. noi sul palco eravamo imbriachi e non capivamo. dettagli. facevamo cagare eppure si è sempre fatto il pieno. ricordo quella volta quando mi venne lanciato addosso un reggiseno. era il mio momento, avevo finalmente il patentino di rockstar. peccato che non mi bastò e come un icaro provai ad allacciarlo goffamente su un altro del gruppo dimostrando ben scarsa esperienza nel maneggiare chiusure di intimo. uno del pubblico mi urlò frocio. ed io non ho provato dolore. beh, che poi a dire il vero battesimo c’era stato in una stracolma aula 1 prima delle vacanze di natale del 92. che emozione, sembravamo un gruppo per davvero. il baccano della batteria, delle chiatarre amplificate marshall,  del basso amplificato marshall, del piano marshall fece starare gli strumenti del dipartimento di chimica fisica. memorabile la scena del preside che tira per i pantaloni berto il singer in piedi sul bancone che da consumato animale da palcoscenico  noncantava spanish bombs ad occhi chiusi e sguardo basso e rigido che pareva appena uscito dall’azoto liquido. il chiarissimo ci fermò, ci chiese per quanto saremmo andati avanti ancora, e poi fece spegnere precauzionalmente gli strumenti dei chimicifisici per il tempo che avremmo nonsuonato. il barbutissimo maglionissimo professor magelli. altri tempi. e poi c’era il concorso di fotografia, di poesia, c’era la fanzine “industriandosi”, il concorso di bruttezza..
comunque pare che dopo anni di oblio l’ambiente sia finalmente tornato fertile lì a chimica industriale. me lo ha detto di recente un paricorso di noi iscritti nell’autunno 1989, quando cascava mezzo mondo. lui è diventato professore. io no. vabbò, lo si capiva già mentre veniva giù il muro di berlino di come la sarebbe andata. ma questa è un’altra storia.
oggi è il 6 novembre, uguale per tutti. ma per me è un 6 novembre più uguale degli altri.
chimica industriale è stata un grande scuola, con dei grandi maestri. austeri come da libro cuore nelle vesti accademiche, folli sbracati alle folli sbracate feste di laurea.
sarà la nostalgia canaglia, ma mi sembra che via da li’ non ne ho mica più incontrati come loro.
se penso alla leggerezza di quando tra le due fila si scelse quella giusta ecco

vabbò… barman! ce l’hai lo genziana? genziana per tutti, offro io ‘sto giro cumpà
brindiamo alla nostra, quei 130 circa del 6 novembre 89, ovunque oggi noi siamo
io sono tonnio’s, un chimico

lunedì 2 aprile 2012

come dormi? come dormi, la notte? cap. 9, 10 e 11


mi sembra che alla fine non sono poi tanto diverso da quei tempi, sai?
forse un po’ più brutto.
beh, sì.
e anche stanco. certamente ruvido e scontento. e poi mi sono anche arreso. in nome di chi, in nome di cosa, dovrei combattere?
no, no… per carità, per carità…
sono stanco, sono annoiato.
la mia vita sbadiglia come il pendolo di un orologio a pendolo
sai, se ci penso, ho ancora quei difetti che ti hanno fatto innamorare, gli stessi che ti hanno fatto andare via. del tipo compro cibi veloci al supermercato perché dico che non ho tempo ma ci metto poi mezz’ora a ritrovare l’auto nel parcheggio.
di certe cose ai bei tempi ci ridevi su. poi, col volgersi degli autunni, queste cose hanno iniziato a scatenare tragedie.
che ne è stato di tutto quell’amore, non lo so. ho sentito che il processo dell’invecchiamento comincia dal momento che si nasce, appena sputati fuori. possibile che il nostro amore abbia cominciato un processo di demolizione nell’istante in cui ha preso forma? eravamo spacciati già al tempo zero?
tutto ciò è molto triste e doloroso, ma è andata così. e non ci resta che ruggine tra le mani.
ci penso spesso.
ti penso spesso.
la notte, quando spengo la tivù o richiudo un libro, da solo, mentre ascolto il buio della stanza, il vento fuori che agita le cose, il freddo della collina, l’abbaiare dei cani da lontano.
e te? ci pensi mai?
mi pensi mai?
ti capita, ogni tanto, ma non per quella canzone quel film quel posto, ma naturalmente, perché ti capita e basta?
ma poi, la notte, dormi?
e come dormi?
come dormi, la notte?
apro parentesi
oh, non voglio mica fartene una colpa, oh. tanto non sono mai riuscito in questo, neanche allora nel tempo della catastrofe. figurarsi oggi. meno che meno.
ma però
certo che tu, ‘nsomma, avresti anche potuto, boh, che ne so, avresti anche potuto lasciarmi lì dove stavo, ecco.
chè io poi, lì dove stavo, ci stavo anche bene, per dio
ma proprio bene
chiudo la parentesi
(oh, sempre senza rancore eh, intendiamoci)
(oh, hai tutto il mio amore, all of my love, all of my love. ma il rancore, la rabbia, me li tengo per me. per ora, e per sempre. l’amore te lo meriti. l’odio no. non te lo concedo. per quel che te ne importa dell’uno e dell’altro, beninteso)
(oh)


CAPITOLO DIECI

(le stravaganti coincidenze)

rieccoci li’ in uno dei tanti barsport sulla via emilia, le 10 del mattino di un sabato di oltre metà novembre 1997. eccomi li’ intento a farmi i fatti miei, incurante del cappuccino che si è raffreddato e la schiuma svanita, incurante delle briciole della mia salata che per effetto elettromagnetico mi si appiccicano lungo tutta la felpharaday, incurante della fame nel mondo, del pil, dell’inflazione, dell’indice nasdaq, della new economy. provinciale nel perdermi negli eventi nostrani magnificati dal carlinobologna. alcisa mal sopportava le mie fughe dal contesto della sua plateale ma genuina modestia, e mi apostrofava, e mi chiosava, e che ero un pezzo di merda, e che ero un laureato di merda, che cazzo leggi sempre, che solo perchè avevo letto un libro, che solo perchè un giorno ero passato davanti all’università… aveva strani preconcetti, alcisa, e questo mi sorprendeva positivamente. chè a volte mi dava la sensazione che per la sua testa circolassero altro che scoregge di ranocchi.
buffa coppia davvero, noi due. lui dalla grammatica approssimativa, lui che alla terza media era stato normale fermarsi, ed io che nell’ambiente dell’accademia scientifica millantavo una conoscenza umanistica fatta di letteratura russa e novecent’americana. i soliti classici, siamo d’accordo. ma nel recinto esclusivo dei pragmatici studiosi della materia con un curriculum siffatto potevo facilmente ergermi a guru illuminato aperto alla grandiosità di tutta la conoscenza planetaria. già nei tempi e nei templi della chimica industriale.
lui fresco del patentino di papà, io invece che come mi diceva “è tanto che non la vedi che non ti ricordi neanche più se è verticale o orizzontale”
quindi? cosa ci facevo in quella provincia in quel bar in quell’ora di quell’oltre metà novembre di quel 97. cosa stavo facendo?
sì, leggevo il carlinobologna, bello eretto, espressione tra lo scazzato ed il severo, che mi sentivo sicuro e protetto in compagnia della fisicità panciuta del compare. e quando al solito cominciò a menare menate e manate sulla mia nuca, che era ora, che oramai la nostra postazione tattica al lago mingulein era sicuramente già stata occupata, gli dissi fermo un attimo! oh... fermati un attimo... un minuto, un minuto solo poi andiamo…
alcisa stranamente non insistette. mi lasciò subito perdere e fece la centesima telefonata breve alla brava alina.
..zzao zipollaaa…
quello che aveva destato cotanto scalpore nel vostro era la notizia di uno di quegli eventi di cui si cibano le pagine dei quotidiani locali. trattavasi di cortocircuito alla centralina elettrica della sede della facoltà di farmacia quella di via s. donato, con conseguente sviluppo di fiamme e fumo ed evacuazione immediata di tutti i locali.
‘dai! ma daiiii! io c’ho fatto il concorso, la’! ma te pensa! ohi, ma è dove dovevo andare a lavorare. dove avrei lavorato mi fosse andata bene quella volta. ma che storia è, ehhh?’
alcisa se ne tornò al banco del bar per riprendere il palcoscenico, per ricominciare ad annoiare gli altri avventori del bar con la prosa di pescate miracolose, di che fine avevano fatto certi personaggi mitologici calderinesi e zolapredosi, di quanto era zoccola quella ma mai quanto quell’altra, di quello che era in gabbia ma per fortuna non aveva cantato, storie di pompini, di coltelli, di cocaina tagliatissima. ed io rimasi lì, col pensiero ormai già dirottato sulla formazione che l’indomani sarebbe scesa al dall’ara, inconsapevole di una raccomandata che viaggiava nelle tempestose acque del destino che regolava il mio decorso sul pianeta emilia. una missiva che mi offriva l’arruolamento nel corpo dell’alma mater, a tempo determinato, io primo degli esclusi di quel fatidico concorso, e ora la gravidanza di una distante donzella mi apriva il cancello dell’eden. la logistica proprio quel sito in cui gli dèi se la erano spassata coi loro giochi pirici,  a modo di tipo ch’avete presente quei video pepsi-mentos su youtube? ne ho fatto uno anch’io, con ursus sbatacchio e il buon dario, fatevi un giro se vi va.
vabbò, comunque.
data presa servizio primo dicembre. primo dicembre 1997.

primo dicembre 1997, 350 km più a sud lungo l’a14 e altri 30 verso l’interno. c’è una giovane studentessa iscritta al quarto anno della facoltà di farmacia di bologna. se ne è tornata di buon grado al suo paesotto, che mal sopporta la vita che certe discendenze dinastiche le impongono. il papà c’ha la farmacia del paese, ereditata a sua volta dal padre, e il lasciapassare lo ha conseguito proprio nella dotta e grassa. 35 anni prima, forse ancor di più. uh uh uuuuh. ora tocca a lei. non ha scelta. non è un’imposizione paterna, ma si sente predestinata. un po’ come certi figli di re e regine che non ne volevano mezza, vuoi perché culi, vuoi perché gli era scesa la catena, di cui sono pieni i libri di storia.
soffre la giovane, ma non per il poco pingue libretto degli esami. scarno, molto scarno. è che mal sopporta la lontananza dal paese e bologna è un luogo ostile. ma reagisce tenace, resiste nella convinzione che non c’è altra via. intanto l’incidente di via san donato le ha offerto il pretesto per tornare tra le piccole mura fortificate del suo borgo. certo che mancavano solo tre esercitazioni di laboratorio più la prova incognita finale, prima di poter rientrare nella comoda placenta dei natali. ma questo cortocircuito è un dono divino, anche pochi giorni ora le sembrano una salvezza piovuta dal cielo, il mar rosso che si apre e che permette la fuga da un rigetto che è placato solo da dosi quotidiane di xanax e sedute del mercoledì. se ne riparlerà a gennaio, forse febbraio, per le frequenze di laboratorio obbligatorie.
eccola li’, il primo dicembre 1997, al sicuro tra la sua gente di tutti i giorni, con le sua smunta compagnia di coetanee/i, nel giorno del suo ventiduesimo compleanno.
c’è anche il suo ragazzo, ovviamente. che a quell’età, in quel paese, e se poi te ne stai lontana e sola, il ragazzo ce lo devi avere. ragazzo che non ama, ma lei lo soffoca il suo non-sentimento, non vuole ascoltarlo, non vuole sapere ne’ di questo ne’ che forse un’altra vita sarebbe possibile. ma c’è tutto un paese che è più grande del mondo, e lei è la figlia del farmacista. e pensa di essere in guerra. magari ci è davvero, in guerra. non è forte, ma è una di quelle che non è disposta a cedere.
eccola mentre festeggia il compleanno al solito posto delle solite feste, con la solita compagnia, col solito ragazzo, con quel mondo che si ripete sempre uguale.
le bruschette, gli arrosticini, la torta, le candeline, i regali. fermi. guardate qua. sorridete. fotografia.
intanto, 30 km verso oriente ed altri 350 su a nord lungo l’a14, un giovane laureato potrebbe raccontare di come è stata quella prima esperienza di attacco alla mammella dell’alma mater, quel primo dicembre 1997. ma agli amici storici, con l’entusiasmo del novizio, che ti porta a bruciare sigarette su sigarette, a navigare in confortanti birre irlandesi, gli sbrodola ancora del come è scomparso, del perchè non si fa più vedere in giro, di quella vita che c’è al di fuori dei viali di circonvallazione.
e intanto nessuno di loro immagina. nessuno immagina che quelle tre esercitazioni e prova finale di laboratorio di analisi dei medicinali III, corso che doveva concludersi in quel novembre, sono poi da recuperare di li’ a venire.
nessuno al mondo immagina che quel giorno è il primo dicembre 1997.
non lo sapevo neanche io, ovviamente.


CAPITOLO 11
in verità, quel telegramma mi arrivò addosso come un tir carico di dubbi. cercai consiglio nel boss del laboratorio
“capo che faccio? mi conviene andare, o è meglio se resto qua?”
“vai vai! vaiiii! oh, farmacia! farmacia, è pieno di figa! sentammè, vaiii!”
“ah. ok. allora faccio come mi dice lei. se c’è tanta figa d’altronde..”

di primo impatto ebbi subito l’impressione di essere andato incontro ad un declassamento professionale oltrechè sociale. a parte il discorso che lo stipendio sarebbe stato un po’ inferiore, che avrei detto addio al buono vestiario, e che mentre a seabo avevo un buono pasto quotidiano che copriva un pranzo al ristorante (e il venerdì c’era sempre pesce) ora ne avrei avuti due settimanali da diecimila lire l’uno da spendere nei bar. ma bastava vedere l’ambiente di lavoro per capire che non avevo fatto proprio un balzo avanti. l’impianto di depurazione acque e i laboratori chimici di seabo di sasso marconi erano strutture moderne, con moderne attrezzature, lavoravo con delle gas-massa di ogni tipo e di ultima o quasi ultima generazione. tutto era bianco e luminoso e dal sapore mitteleuropeo. la gente che lavorava lì scherzava e sembrava felice.
il laboratorio di via san donato che mi venne assegnato era il classico laboratorione didattico universitario, fatiscente in un edificio fatiscente, con odore forte di chimica e muffa. tutto dava l’idea di vecchio, le stanze puzzavano di vecchio, i muri, i mobili, il soffitto, tutto vecchio. incrociavo gente smunta e incazzata, che ti guardava con l’espressione di chi pensa: e te? che cazzo vuoi, eh? passai i primissimi giorni di quel dicembre 1997 a fare inventari di sostanze, ma mi sembrava un po’ come scavare delle buche per poi ricoprirle. dopo pochi dì mi affiancarono un portinaio della sede centrale di via belmeloro che si sarebbe dovuto occupare della mia formazione. anche lui al pari di tutta la realtà in cui mi trovavo immerso aveva un’aura di vecchio. folti capelli neri tirati indietro con striature bianche, occhiali con lenti paurosamente spesse su una montatura rubata al nonno di cavour. non so, c’avete presente togliatti da vecchio? ecco, sembrava togliatti da vecchio. anche nella voce, che usciva gracchiata e lagnosa come da una radio degli anni trenta.
ora, cari i mei aficionados e le mie aficionadesse, vi starete chiedendo, ma come mai proprio un usciere mi faceva il training in un laboratorio chimico. ebbene, costui, a discapito di un aspetto ed un atteggiamento piuttosto scoraggiante, oltre che scoreggiante, ebbene sì, si sapeva destreggiare con una certa disinvoltura pure in questo contesto. in breve, era uno che sapeva vendersi. ed ovviamente non aveva alcun interesse a che io imparassi a muovermi in modo indipendente o ad avere una qualche idea di quello che avrei dovuto fare il giorno in cui il laboratorio sarebbe stato nuovamente praticabile dopo il famoso cortocircuito ed incendio della centralina elettrica. lui se ne veniva lì e ce ne stavamo delle ore seduti a due scrivanie di un ufficio. io gli chiedevo ogni tanto
“capo, non è ora che mi insegni qualcosa della faccenda?”
“non chiamarmi capo. tu sei un livello sopra il mio, e sei il nuovo responsabile di questo laboratorio. io non ho nessuna responsabilità. sei tu che sei il capo, non io”
quante volte la menava con ‘sta soria delle responsabilità. intanto non faceva un bel sacrosanto cazzo dalla mattina a sera. se la spassava alla grande, togliatti da vecchio. tanto poi il giorno in cui mi sarebbero entrati 80 studenti per riprendere le esercitazioni pratiche di analisi dei medicinali tre, sarebbero stati guai miei. lui avrebbe tranquillamente ripreso posto nel gabbiotto di via belmeloro, a scorreggiare quando possibile, tipo fatta una certa ora, la sera.
“senti, almeno oggi vediamo un po’ di cose, dai..”
“ma stai tranquillo, ma stai calmo. guarda, non ci vuole niente, basta ben poco per capire come funziona qua. tanto sai quando si ricomincia qua?”
“e quando?”
“eeehhhh!!! ahivoglia…”
“si però che due maroni”
“eeeehhh quanta fretta. goditela anche te, che poi dopo quando si comincia poi li rimpiangi questi momenti. non avrai neanche più tempo per chiavare. che te ce l’hai la ragazza, no?”
“no, non ce l’ho”
“non hai la ragazza?!”
“no. non ce l’ho. è grave?”
“no, è che pensavo ce l’avesti”
“aves-si”
“sì sì… comunque non ce l’hai. sei mica uno di quelli?”
“quelli chi?”
“quelli lì! quelli dell’altra sponda”
“quale sponda?”
“non fare lo stronzo che hai capito. sei uno di quelli?”
“ma perché ti interessa ‘sta cosa?”
“stronzo, guarda che a me mi piace la patonza, stai tranquillo. voglio solo sapere se posso essere tranquillo”
“puoi essere tranquillo. non sei il mio tipo”
“ah ma allora vedi che c’ho ragione! sei uno di quelli!”
“che due maroni.. ma poi, da cosa lo avresti capito, che sono un quello?”
“hai detto che non c’hai la ragazza…”
“ma non c’ho neanche il ragazzo. dunque siamo punto e a capo”
“secondo me a te ti piace la panocchia”
“magari con due enne. comunque non la tua”
“mi sa che devo stare attento a piegarmi con te in giro”
“merda! che due maroni! ma non si può far qualcosa qua dentro che non parlare di stronzate?!”
“stai calmo, stai calmo, non avere fretta.. ma te ti piace la carbonara?”
“seeee….”
(stavo cominciando a cedere. togliatti da vecchio era peggio di venti martellate sui coglioni)
“oggi potremmo farci la carbonara. te la sai fare?”
“seeee…”
“e come la fai la carbonara te?”
“senti capo, so fare la carbonara. punto”
“non chiamarmi capo. sei tu che hai il livello più alto qua, sei tu che sei il responsabile….”
“seeee bonalè dai, ho capito, ho capito…”
“comunque, per esempio, tu dove la friggi la pancetta della carbonara?”
“nella padella..?”
“non fare lo stronzo. intendo dire, che ci metti nella padella per cuocere la pancetta”
“olioooo…?”
“no!”
“no?”
“burro!”
feci una finta espressione di stupore per dargli soddisfazione, e la sua faccia si fece trionfante. manco avesse detto ad insaputa del mondo “e uguale a emmeciquadro”
“ok. falla col burro… falla come cazzo ti pare”
“no. la faccio col burro”
“grandioso”
“allora usciamo a fare la spesa qua di fronte, ci mettiamo un attimo”
“cap.. cioè, io dovrei passare pure alla veneziana a prendere i due camici”
“ok. passiamo di lì. ma glielo hai scritto nel buono che devono essere neri?”
“certo che no! col cazzo che mi metto un camice nero!”
“ma non puoi metterti il camice bianco, oh! solo i professori e gli studenti possono portare in laboratorio il camice bianco. noi tecnici dobbiamo avere il camice nero”
“ohi, napo orso capo nonchè subcomandante marcos, cioè te lo dico bene ora e per sempre. vedi, io non è che un giorno ho preso 30 e lode in organica due per mettermi poi un camice nero. per carità eh, poi massimo rispetto per tutti, siam pur sempre degli illuminati progressisti. ma ficcati in testa te e tutti gli altri che io mi metto un camice bianco che più bianco non si può. ok?”
“ok ok fa come ti pare che mi frega a me. prendilo bianco, fa pure. ma poi quando i professori ti dicono che devi avere il camice nero, te che gli rispondi?”
“che ho preso trenta e lode in organica due. fidati, loro capiranno”
fece una carbonara memorabile. in laboratorio, impiegando la fiamma di un bunsen. pesantina, ma credetemi, la più buona carbonara del mondo. mancava solo il vino e sarebbe stato un pranzo perfetto. beh, quasi. magari pure con un’altra compagnia. però suvvia, l’aveva poi fatta lui la carbonara.
vedi, è che ognuno, anche l’ultimo degli stronzi, in fondo in fondo c’ha almeno un talento. anche togliatti da vecchio.