CAPITOLO 12
– wild horses
ci vuole
molto tatto. né bisogna fare delle affermazioni brusche. ci vuole una grande
pazienza, ma non si può andare via.
“ebbene..?”
“uh?! ebbene cosa?”
“come ebbene cosa. le ho appena fatto una domanda!”
“ah. non saprei, è che, vede ecco… mi sa che non sono sicuro di avere ben afferrato il concetto. me la può riformulare, la domanda?”
game. set. match.
poi altro giro altra cazzata nel bel mezzo di una questione a risposte chiuse, proprio mentre stavo ragionando sulla disposizione degli alcolici dietro al bancone dell’old west pub: havana club 7 anos, pampero, varadero, glen grant, j&b, jack daniels.. ascoltai solo metà dell’opzione b e la c. non sapevo neanche a proposito di cosa.
“dunque, dottor bitossi. in questa situazione, lei farebbe come da a, b, o c?”
cazzo. quale situazione? vabbò..
“beh, dunque… la a, direi. sì, sicuramente a”
“a?!”
“no?”
“non è un quiz. sto cercando di capire la sua personalità”
“ah. ok. allora confermo l’opzione a, sicuramente a. sperando che da ciò non si evinca che sono pazzo ah ah ah… eh!”
e poi il gran finale
“mi dica… come vede il suo futuro?”
la buttai sul folklore, tanto oramai. una volta ad un colloquio di lavoro mi aveva detto bene buttarla sul folklore, sul finire del militare, settembre 1991, quando avevo intenzione di mollare l’università, seppur che durante l’anno da matricola avessi fatto il pieno degli esami. poi avevo dovuto interrompere il percorso accademico perché chiamato a difendere il patrio suol. non avevo fatto il rinvio, certo che uno stronzo come me mica lo avrebbero mai chiamato. e invece. orsù, comunque, quella volta a bentivoglio, la tipa che scannerizzava il mio io mi pungolava acida, ma serafico ribattevo con sfrontata sicurezza. mi chiese se avevo amici.
“certo che ho amici”
“e lei nella sua compagnia che ruolo ricopre?”
“terzino sinistro”
“non faccia lo spiritoso. lei potrebbe definirsi il leader, all’interno della sua compagnia?”
“no”
“no?”
“no. il leader è guimaraesh”
“e chi è ‘sto guimaraesh?!”
“come chi è ‘sto guimaraesh!”
“dovrei saperlo, a suo avviso?”
“sì. dovrebbe… tutti sanno chi è guimaraesh”
insomma, mi offrirono il posto. che rifiutai per riprendere gli studi.
ora, tornando al 1997, alla domanda sul futuro, risposi
“una moglie, un figlio, un cane”
“io intendevo in senso professionale”
“mah, non saprei.. io non sono molto ambizioso”
“come non è ambizioso!”
“no. non lo sono”
“ma lei deve-essere-ambizioso!”
“ah. ok. magari ci ripenso”
“dunque?”
“non so. non mi piace il futuro. mi affatica il solo pensiero”
“ah! e le sembra positiva questa affermazione?”
“non saprei. a me piace, però. non è neanche mia. è di andrea pazienza”
“ahhhhh! andrea pazienza…”
“già. un grande. forse il più grande pensatore del novecento”
“mi sembra quantomeno discutibile questa cosa che ha appena detto”
“ah. sì, forse ho esagerato un po’”
alla fine non mi disse neanche le faremo sapere.
manco mi disse se ne vada a cagare. ma questo almeno lo avrà pensato.
tornai in
tempo per il match di eurolega tra la virtus e l’alba berlino. strano, ma mi
sentivo benissimo. dentro di me c’era una parte pragmatica che mi imponeva di
trovare una sistemazione professionale e sociale stabilizzata. la metà irrazionale
non voleva rinunciare alla provincia e alla provincialità di bologna, ai bar,
ai laghetti, ai fiumi, alle tigelle e crescentine e lambrusco e pignoletto. ad
alcisa, alina, il nuovo arrivato. alla mia famiglia, insomma. quella volta la
seconda parte prevalse per cappotto. uscito dal palamalaguti, quella notte, mi
fermai a dormire sul loro divano. alcisa non stava nella pelle dalla gioia che
mi avesse detto male, mi insultava e mi riempiva il bicchiere di vino in
continuazione e mi allungava fette di salame e crackers e paglie.
“ma dove
cazzo vuoi andare te? te è meglio che rimani dove sei. pensi di essere così più
bravo? non vedi che non ti prende nessuno?”“non è questo il punto. ohi, ciccio-panzo, io sono a tempo determinato.. do you remember?”
mi diede un colpo forte con le nocche del pugno sulla testa
“senti, diu rimella, la prossima volta che mi dici ciccio-panzo ti do una scoppola”
mi tenevo il palmo della mano dove mi era arrivato il colpo con una espressione sofferente
“prossima volta il cazzo. mi pare che me l’hai data”
“la prossima volta te ne do due”
dunque, quello che comunque alcisa più temeva era infine accaduto.
nel dicembre 97 smettemmo di essere colleghi, ma questo non fu poi di ostacolo.
si parlava già di come avremmo passato il natale, la festa di capodanno, e del
battesimo del piccolo albino.
eravamo due
cavalli imbizzarriti, e non riuscivamo a credere che cosa mai avrebbe potuto
fermarci o dividerci.
ti ho citato qui
RispondiEliminahttp://cizou.iobloggo.com/162/da-john-fante-passando-per-mirko
ciao