lunedì 6 agosto 2012

come dormi? come dormi, la notte? cap. 13


come dormi? come dormi, la notte?

CAPITOLO 13

negli ultimi giorni di gennaio del 1998

alcisa mi aveva telefonato a casa per dirmi ti aspetto al bar che ci facciamo un campari e poi mangi da me. quella appena passata era stata una giornata lavorativa speciale ma pesante, e dunque non ne volevo granchè. tra l’altro quella sera c’era il film la patata bollente alla tv, con pozzetto, la fenech e un grande massimo ranieri. l’avevo già visto una decina di volte, volevo fare una decina più uno. ma lui disse non fare lo stronzo vieni subito che sono già alla terza ceres. sbiascicava le parole infatti.
“ok dai. dov’è che sei?”
“cretiiiinaaaa… da rudy, dove vuoi che sia! idiota…”
“oh, cazzo ne so”
“muoviti, idiota”
“seee.. va bon”
mi infilai le scarpe con una certa lentezza smaronata
arrivato al bar di rudy lì a zola predosa alcisa ovviamente già non c’era più. faceva sempre così, ti dava un appuntamento, ti metteva addosso della gran ansia, muoviti, muoviti, ok calmo venti minuti dicevo io, un quarto d’ora diceva lui. e poi non lo trovavi. andai direttamente a casa sua. alina mi aprì con in braccio il piccolo albino mezzo appisolato, un occhio chiuso e uno mezzo aperto. appisolato a tre-quarti, ecco.
“alcisa è di la’ dal fontaniere. e mi sa che è già ubriaco” sbuffò
“mi spieghi perché dovete bere sempre, voi due? non ne potete proprio fare a meno, eh?”
“eh. non so. che ti devo dire… comunque adesso vado a riprenderlo dai”
“mo sé! allora sì che stiamo a posto adesso. vai vai..”
brando il fontaniere abitava nella casa di fronte. praticamente manco dieci metri da porta a porta.
alcisa e brando stavano seduti a tavola a bere dello scoraggiante vino itterico da una caraffa già svuotata per buona parte. la moglie del padrone di casa, col pancione della sua seconda gravidanza, stava già lavando stoviglie e tegami e si passava continuamente il dorso della mano sulla fronte. ogni tanto dava un’occhiata fuori dalla finestra proprio sopra al lavandino. cosa guardasse, non si sa. non c’era niente, la’ fuori, a parte la periferia industriale di zola predosa. mi fecero sedere e subito alcisa mi riempì un bicchiere senza dopo appoggiare la caraffa. “dai ben cretina butta giù, che te lo riempo subito. non sono mica la tua serva” e fece un cenno col capo verso la signora
“lei la’?” se ne uscì brando, puntandole l’indice “lei la’ sta bene lei. ieri sera c’ho tirato una leccata di gnocca che la madonnina sopra al letto è ancora lì che applaude” e si mise a battere le mani con la dovuta flemma cadenzata. la signora non fece una piega, alcisa si mise a ridere come un orango ritardato, io seccai d’un fiato il vino e dissi “beh? ‘csa fegna?”
in casa alcisa si era diffuso un denso aerosol di vapore e grassi saturi, e un odore di carne di maiale in padella lo riconoscevi già dal cortile fuori. mi ricordai di quando da bambino mia nonna mi faceva salsiccia, pancetta e costoline di maiale, cucinate nello stesso olio riciclato di altre fritture, e guai a togliere il grasso “che è quello che fa più migliore”. roba che le arterie ti si restringevano a vista in tempo reale. accarezzato da questi unti ricordi mi illuminai d’immenso
“uh uh uhh… gli usdèin ed ninèin! eh, alina?”
“a tal deeeeg” ribattè alcisa accendendosi una paglia tenuta in bocca di sbieco
“e prendi ben la bottiglia di vino che è in frigo, invece di star lì a dire cazzate a mia moglie. che brindiamo”
“e a cosa?”
“a te, che sei un gran pezzo di merda”
si fece quella sua classica risata assurda a mitraglia ah-ah-ah-ah-ah, aveva dei modi di ridere ignorantissimi. poi prese a sé il figlio reggendolo su con un braccio solo, cercando di tenere lontana la paglia. gli diede un bacio con schiocco su una guancia, un bacio quasi violento. il cinno cominciò ad urlare un pianto tremendo. lo rimise giù nella culla.

“aspetta ali che t’aiuto a apparecchiare”
“ali? hai detto aliiii? si chiama alina, pezzo di merda”
“ma magari a lei non da fastidio. e comunque sarebbe bello sentire da lei cosa ne pensa. alina, ti da fastidio se ti chiamo ali?”
“boh. chiamami come ti pare..”
allungò la tovaglia sul tavolo e si piegò per stenderla per bene. aveva una vestaglia leggera, e io che le ero di fronte potei godere delle abbondanti meraviglie di madre allattante e allettante. alcisa mi sgamò e mi mollò un colpo forte alla nuca
“cazzo guardi, idiota”
“dai, che male c’è. siamo una famiglia noi, no?
“famiglia il cazzo. scommetto che stasera ti fai una sega pensando alle tette di mia moglie”
“dici sempre moglie, ma non siete mica sposati”
“ma abbiamo un figlio, e un figlio è più di sposati. chissà quante seghe ti sei fatto pensando a lei”
“oh! ma la finite? vi sembra bello, con me davanti? e poi c’è il bambino”
alcisa mi guardò torvo. sembrava cercasse di capire quante seghe mi ero fatto pensando alla sua compagna. siccome la vista dell’ampia generosità di quei seni mi aveva provocato un’erezione, evitai il suo sguardo.

quel giorno, era stato un giorno particolare. era stata la mia prima esperienza di assistenza didattica alle esercitazioni pratiche del laboratorio di analisi dei medicinali 3, cioè quel corso che era stato interrotto a poco dal finire a causa dell’incendio della centralina elettrica. iniziai a raccontare di questa recente avventura, disquisendo su un ragionamento che avevo fatto in macchina nell’andare lì.
“che fighe! quante! e una più bella dell’altra. mica come a chimica industriale. belle. bellissime. mi son chiesto il perché. perché a farmacia ci sono solo che delle belle gnocche da paura, e a chimica industriale no? poi comunque mi hanno spiegato che a farmacia molti degli iscritti sono figli, e figlieeee-è, di farmacisti. gli serve la laurea e poi la prenderanno in mano loro, la farmacia. quindi ho pensato: sono figlie di gente ricca, proprietari di farmacia, oh! e un ricco sposa una bella donna. una donna figa va sempre con gente con la pilla, si sa. e poi finisce che fanno figlie, figlie di madri gnocche, che hanno alta probabilità di essere gnocche a loro volta. questione di cromosomi, capite? sono i principi di mendel, dell’eredità dei caratteri, insomma”
“quindi stai dicendo che albino verrà su un cesso, che noi non abbiamo una farmacia. pezzo di merda…”
“albino è bellissimo e avrà donne bellissime chè alina è bellissima”
lei fece una smorfia vanitosa, mi guardò negli occhi, io arrossii e li abbassai e mi misi a giochicchiare con delle briciole di pane.
“mangia ben, scemo”
e si allungò sul tavolo per mettere con la sua forchetta un’altra costoletta nel mio piatto, premio della mia piaggeria. la mia attenzione cascò ancora sui suoi seni, alcisa mi diede un pugno dritto all’orecchio
“ahioooo! ma vaffanculo, otello”
“otello? cazzo vuol dire otello? frocio?”
“vuol dire che mi hai fatto male, cazzo”
“allora vuole anche dire che stai attento, idiota. fa mò un filtrino quando hai finito, cretina, che ci facciamo un joint e poi te ne vai che sono stanco”
“fumo o marvisana?”
tirò fuori dalla tasca una pallotta di stagnola e l’aprì
“questa roba qua. ti va bene?”
era fumo.
“no grazie, quella merda te la fumi tu. io mi faccio un cicchetto della buonanotte, al limite”

poche ore prima, nel laboratorio didattico numero tre di via san donato 19/2, tra le tante belle e brave studentessine, ce ne erano state due che avevano richiamato la mia attenzione più delle altre. stavano sempre in coppia e avevano un accento meridionale che non sapevo collocare geograficamente in modo puntuale. nonostante gli anni meltingpottici dell’alma mater e quello del militare, non ero in grado di riconoscere un accento oltre che dire nord e sud (isole comprese). una mi sembrava più carina e più meridionale dell’altra. ma l’altra mi diceva di più. era formosa al punto giusto e mi chiedeva le cose in modo molto educato, aspettando dignitosamente il proprio turno. mi chiese una sostanza incognita organica azotata che non le erano mai capitate di quel tipo, io le diedi una provetta contenente sodio salicilato (organometallica, niet azoto). ci sarebbe diventata matta a capire cos’era. il tecnico multiciondolato con l’orecchino (così le due mi avevano battezzato nei loro bisbigli confidenziali) aveva fatto la cazzata, d’altronde. ella occupava il banco numero trenta.
e il destino, trenta volte, ci guardava.

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